09 Ci scrive Diego dal Perù

Carissimi amici, simpatizzanti, soci della banda cittadina di Darfo Boario T.; Pochi giorni fa mi è giunta qui in Perù la lettera di un amico musicante, e con la proposta di scrivere un articolo per "SEMIBREVE"; benché lo scrivere non sia ancora divenuto il mio forte; accetto volentieri almeno di provarci per due motivi: per primo è l’occasione di dire ancora una volta il mio grazie agli amici della banda, con i quali ho condiviso più di dieci anni di musica, lavoro, progetti, preoccupazioni, avventure, allegrie.....
Nonostante da quattro anni sia lontano (ma solo fisicamente!) dall’associazione, gli amici musicanti continuano a restarmi vicino ed essermi di sprono con i loro scritti e di aiuto e con la loro beneficenza.
Inoltre, ed è un immenso piacere, mi tengono informatissimo sulla vita della banda, dal più comune servizio al più importante concerto…… e oltre frontiera, in questi ultimi anni.
Così, se mai e poi mai potrà venire in me il ricordo di ciascuno di loro e dei bellissimi momenti vissuti insieme alle prove, ai servizi, ai concerti……. e alle passeggiate su per i monti, sapendo dei continui successi cresce anche in me l’orgoglio di appartenere (anche se purtroppo ora in forma poco attiva) alla Banda Cittadina dl Darfo Boario T..
Il secondo motivo è il forte desiderio di parlare di questa nostra realtà, di questa nostra gente, alla ricerca di chi ci aiuta a voler bene sempre di più a questi poveri.
Quando ho lasciato la banda, nel 1990, sono partito per Retiro, in Brasile: una missione delI’Operazione Mato Grosso dove già da 5 anni stava lavorando Pierfranco Rota (anch’egli di Darfo). Sono stati 2 anni di vita estremamente semplici in questa comunità sperduta nel “Mato”, sulle rive del fiume Tocantins, nell’omonimo stato.
Gente semplice, buona, molto aperta, socievole, laboriosa. Un popolo senza più radici: discendenti dagli schiavi africani la loro è tutta una storia di fuga, fin dal 1600. Fuga dalla schiavitù prima, dai grandi proprietari terrieri poi, dai moderni imbroglioni ora. Ancora non hanno una loro terra, un vero paese, e questa loro precarietà si rispecchia in tutta la loro vita: dal non sapere se le piogge saranno favorevoli e li raccolto soddisferà almeno il fabbisogno di un anno, al non sapere cosa potranno fare se qualche malattia grave colpirà uno dei loro figli, la mucca o il maiale ......
Dal non sapere cosa mangeranno domani, al non poter neppure immaginare il futuro dei loro figli…
E loro esprimono questa incertezza non usando il verbo al condizionale (dove comunque il soggetto siamo noi!) bensì anteponendo “se Dio vorrà”…”Dio sa”... “con fede in Dio”….. ad ogni affermazione.
Dopo aver vissuto 2 anni con questa gente, e un periodo in Italia, sono stato chiamato in Perù, a San Luis e poi a Chacas, la parrocchia di Don Ugo Decensi, il padre dell’Operazione Mato Grosso. Sono proprio qui, dove si ergono altissime le vette della Cordillera Blanca, fra le quali regna il Huascaran con i suoi 6650 metri, dove l’anno scorso persero la vita Battistino Bonali e Gian Domenico Ducoli mentre ne affrontavano la tremenda parete Nord.
E su questo sfondo da paradiso una realtà di di estrema povertà: i “campesinos” sono indigeni, cioè da sempre vivono in queste terre, possiedono una loro cultura, loro dialetto (il Quechuo) e questo li rende un po’ più chiusi, più sospettosi verso i “gringos” (bianchi).... il rapporto e così un po’ più difficile.
Ma come si fa a non voler bene a questi uomini che vivono tutto il giorno nei campi, con queste zappe dal manico cortissimo che li costringono a stare ricurvi su terreni tanto scoscesi che non si riescono ad arare neppure con i buoi. Dall’alba al tramonto nei campi; masticando coca e calce per non sentire ne fame, ne freddo; né sete né dolore, né stanchezza… e così il corpo si distrugge, la mente si intorpidisce... e già a 30, 35 anni sono uomini finiti. E le donne e i bambini, seduti nel ciglio delle mulattiere o dei sentieri, anche al di sopra dei 4000 metri, da soli a curare il loro piccolo gregge di pecore o di porci. Fanno compagnia a se stessi suonando la “Quena”: un flauto in legno il cui suono è in perfetta armonia con questi paesaggi. Ore di cammino per raggiungere un centro abitato... giorni per raggiungere l’ospedale più vicino. Lunghe carovane di asini carichi di legna, patate, granoturco, sale….. e dei viveri italiani che il padre Ugo distribuisce ai suoi ormai 8000 oratoriani, sparsi in ogni angolo di queste profonde vallate, e che ogni domenica si radunano nelle varie parrocchie per cantare, giocare, ricevere il catechismo, partecipare alla S. Messa e mangiarsi un bel piatto di “sopa”!
Questa è la nostra realtà, descritta molto velocemente, e mi scuserete se malamente. Sono queste quattro cose che vi ho detto, più la speranza del paradiso che mi legano a queste terre, a questa gente, alla vita.
E’ stata per me una grazia scoprire questo cammino…. vorrei riuscire a contagiare tutti gli amici cari: chissà se riuscirò con quelli della banda, magari organizzandogli una "tourneé sudamericana" dipenderà anche da voi, soci benefattori! Concludo questo miserrimo prodotto di notti insonni con un caloroso augurio di un felice Natale e di un prosperoso anno nuovo anche a nome di tutti noi qui. Grazie di tutto.

Diego Ducoli